giovedì 11 marzo 2021

Le macchine di Giuseppe Luraghi

 


Giuseppe Luraghi, Le macchine, in Castelli di carte, Torino : Fogola, 1978, pp. 105-109.

Prevedere l'evoluzione dell'uomo è difficile: prevedere l'evoluzione delle macchine è impossibile. Della nascita dell'uomo, almeno il modo, se non le ragioni ed il fine, si conosce. Il risultato sarà più o meno buono, ma si sa presso a poco cosa verrà fuori dopo i fatidici nove mesi. Tutt'al più non nasce maschio ed un’altra femmina; alcuni con la pelle nera, altri gialla, altri bianca; alcuni con naso corto, altri col naso lungo; alcuni che diverranno giganti, altri resteranno nani. E succedono anche sbagli frequenti perché, ad esempio, nascono troppi sciocchi anziché mediocri. Ma, infine, la madre ed il padre dell'uomo da sempre non creano che uomini e donne, salvo le rare eccezioni dei due o più gemelli. Una stirpe monotona appunto invece le macchine madri (il padre e per lo più ignoto) concepiscono e partoriscono in serie sempre più numerose, imperfetta collaborazione, anzi addirittura in promiscua comunità senza alcun pregiudizio: una blu o uno spremilimoni, una centrale elettrica o un orologio, una locomotiva o un macinino per il caffè. Esseri con braccia lunghe 30 m ed esseri senza braccia: individui ciechi che vanno a tastoni, ed altri con grandi occhi che penetrano nel buio a scrutare chilometri di oceano; velocissime capsule spaziali e sotterranee testuggini da scavo; bambole sorridenti e mitra assassini. E la evoluzione delle specie? Del genere umano si discute da tanto tempo se nei secoli si sia verificato, e possa verificarsi in futuro, qualche miglioramento di qualità: le risposte sono piuttosto deludenti, a volte preoccupate, spesso addirittura negative. Delle macchine invece si può dire con sicurezza che l'evoluzione è indubbia, velocissima, sorprendentemente conseguenti e positiva. Ogni generazione provocherà certamente la nascita di una generazione più perfetta, a ritmo sempre più celere. E una storia inesorabile. La macchina semplice genera via via macchine più complesse, poi la supermacchina, poi la strasupermacchina. Fra il bastone (che è la più semplice macchina usata per costruire le piramidi) e la calcolatrice elettronica, c'è una macroscopica differenza del tutto ignota al genere umano. Dove finirà questo progresso metodico, automatico, questa marcia trionfale che moltiplica numeri e risultati? Gli uomini lavorano per mangiare, per avere dei figli, una casa, per divertirsi. Quando non lavorano vivono lo stesso, il loro cuore continua a pulsare, la loro bocca si muove, lo stomaco funziona. Le macchine no: lavorano soltanto per lavorare, vivono soltanto per lavorare. Non hanno altro scopo ed altre aspirazioni. Se non lavorano, ristanno come morte. Ma hanno la miracolosa qualità di risorgere in qualsiasi momento: olio, petrolio, elettricità, poi quanto più corto sarà il riposo, tanto meglio. Le macchine si fermano e muoiono soltanto seguendo ferree leggi economiche e matematiche, e scompaiono silenziosamente soddisfatte di avere rappresentato un anello indispensabile della lunga catena evolutiva della loro specie. Non chiedono monumenti. Le macchine sono esseri molto seri. Perfino la giostra del luna Park punti l'hanno riempita di specchietti, di orpelli, di rose e sirene rubiconde davanti ed i cavallucci rubicondi didietro. Tutti ridono, i bambini battono le mani, ma lei gira ansimando un pezzo del Trovatore, gira indifferente, come assente, gira come se il suo lavoro non la riguardasse. Lei fa il suo dovere dignitosamente: la gioia e per gli altri. Le macchine sono prive di fantasia, ma vincono la fantasia. Quando il grande Chicote, presago dell’avvenire, parti con la lancia in resta per vincere il mulino a vento nel quale egli scorgeva giustamente il gigante terribile, capo stipite della macchinale generazione, fu lui, il mulino a vento, a vincere, disarcionando il poeta ed umiliandolo nella polvere. Ma il mulino, serio, indifferente continuo a girare le lunghe braccia come se niente fosse accaduto, senza rallegrarsi ne dispiacersi senza menar vanto della triste vittoria. Soltanto noi, simili del Chicote, ma di lui meno illuminati, usiamo ridere incoscientemente di questa offesa fatta alla immaginazione dell’eroe, usiamo ridere di questa prima infelice ribellione ad una generazione che si autogenera si auto fertilizza crescendo in ragione geometrica condizionando sempre più la nostra vita, cambiando il nostro destino, la nostra storia. E vero che noi abbiamo anche tentato la caricatura delle macchine, abbiamo cercato di prenderle in giro, di offendere la loro serietà creando le macchine inutili ed esponendole al riso nelle cosiddette mostre d'arte. Ma il falso era senza anima ed è fallito: e risultato una caricatura dell’arte, non della macchina. Molti si sono chiesti se le macchine vogliono sostituirsi a noi, se vogliono la nostra fine. Un amore-odio vago serpeggia fra noi. I bambini, che delle macchine amano l'effige nei loro balocchi, subito li spezzano per cercare un cuore che non esiste: i bambini sono forse guidati da una presaga intuizione? Ma intanto proprio alle macchine noi dobbiamo la nostra sopravvivenza ed il riscatto dalla maledizione biblica “mangerai il pane col sudore del tuo volto “. sono esse che ci lavorano i campi, ci cuociono e ci trasportano il cibo, moltiplicano tutto quanto serve alla nostra sopravvivenza, alla impetuosa crescita delle nostre vite. Ed appagano i nostri sogni portandoci perfino sulla luna. La nostra stirpe e quella delle macchine hanno un destino comune: le macchine sembrano più sicure del loro che noi del nostro. Come fare, per continuare a rimanere noi, gli dei del loro Olimpo? 

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