Macchina di Kate Meyer-Drawe
in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia
antropologica, a cura di Christoph Wolf, Milano : Bruno Mondadori, 2002
L'autodescrizione dell'uomo come macchina
ha una lunga tradizione. L'immagine del suo corpo come machina corporea appartiene alla tradizione e ha costituito il
fondamento di molti approcci teorici ininterrottamente a partire dal Medioevo.
Oggi si trovano ovunque immagini di macchine, nella medicina, nella psicologia,
nella pedagogia e nella sociologia, immagini che sono talmente evidenti che non
ce ne meravigliamo più; questo vale per le idee freudiane dell'«apparato
psichico», per le analisi weberiane dell'«apparato burocratico» e per il
modello luhmanniano dell'uomo come «macchina autoreferenziale». Nell'Antichità
greca mechané, più tardi tradotto in
latino con machina, indicava un trucco,
una manovra, per esempio a scopi bellici, che portava a effetti sbalorditivi.
Odisseo, in questo senso, era un maestro della mechané. Questo significato è stato mantenuto fino a oggi nel deus ex machina, che originariamente indicava
una macchina teatrale con molti trucchi.
Certamente l'antica tecnica degli automi,
che ci è stata tramandata in forma scritta e che va dall'odometro alle sveglie
fino all'acquasantiera automatica, è considerevole; ma, come modello
interpretativo delle possibilità umane, la macchina venne presa in
considerazione soltanto più tardi. Alberto Magno (circa 1206-1280) ed Henri de
Mondeville (metà del XIII secolo-1325), per esempio, spiegano il corpo nel
senso di un meccanismo funzionale che viene comandato dal cuore (Alberto Magno)
oppure dall'anima (Henri de Mondeville) (Schmitt 1990, trad. it. pp. 211 ss.).
Già il celebre chirurgo Galeno (129-200), nel II secolo d.C., aveva applicato
al corpo umano descrizioni meccaniche. Precursore fu la macchina di Archimede,
il motore, che dal punto di vista dei sistemi informatici elettronici moderni
von Foerster distingue come classica dalle transclassiche: modello della
macchina classica è il cuore pulsante; la macchina transclassica trova la sua
analogia nel funzionamento del cervello (Giinther 1963).
L'allargamento dell'immagine della macchina
oltre la sua rappresentazione del funzionamento del corpo è stata consentita
dall'orologio meccanico. In connessione con la diffusione della concezione
aristotelica della techne, che
divenne possibile sulla base della traduzione dall'arabo degli scritti
rinvenuti, tra gli altri la Fisica e l'Etica nicomachea, la metafora
dell'orologio esercitò un'influenza impressionante sulla tradizione; la misurazione
isocrona del tempo grazie all'orologio meccanico, cioè grazie all'invenzione di
un Medioevo denigrato come buio, dovette influenzare come nessun'altra macchina
l'autodescrizione dell'uomo (Neumann 1993). L'orologio non è uno strumento di lavoro:
è l'immagine primordiale della macchina transclassica. A differenza della meridiana
e della clessidra, l'orologio meccanico non è vincolato ai ritmi naturali
(Serres 1989); l'orologio a ingranaggi sottopone il tempo a un ritmo che di per
sé non avrebbe, e in questo mostra una somiglianza familiare con la ragione
umana che tiene sotto controllo la volontà (le molle motrici) e predilige
l'ordine di una dominanza distanziata. La misurazione meccanica del tempo è
ingegnosa; mette in evidenza soprattutto una de- terminata esperienza del tempo
(Burckhardt 1990; Mumford 1967-70). Si può dire che il significato
dell'orologio meccanico sta nel fatto che offre una lingua universale della razionalità
che solo oggi viene sostituita, precisamente dalle metafore del computer.
Il meccanismo dell'orologio non restò
limitato a lungo alla misurazione del tempo. Già nel Rinascimento, con il suo
aiuto si costruirono figure umane e animali che imitavano il movimento
meccanico autonomo; l'autodescrízione dell'uomo come immagine dell'arte- fice
del mondo trovò eccellenti stimoli nell'arte degli automi. Ma soltanto René
Descartes avrebbe consentito di applicare all'uomo l'immagine della macchina in
modo complessivo e allo stesso tempo di porre un problema che ci ha preoccupato
in forme differenti fino a oggi: il problema, cioè, di come noi uomini possiamo
distinguerci dalle nostre macchine.
La differenza gravida di conseguenze tra res cogitans e res extensa, elaborata da Descartes (1596-1650), impose una svolta
decisiva al processo che rese universale una rappresentazione meccanica del
mondo. Descartes svuotò di spiritualità la natura e dotò l'uomo soltanto del
privilegio della raison. L'uomo si
distingue quindi non soltanto dal suo Dio, ma anche dagli animali e dalle
macchine, una faticosa concorrenza che egli chiaramente può risolvere soltanto
collocandola da un lato: in questo modo la gerarchia ontologica è salva.
Secondo Descartes, l'animale non è altro che una macchina, sebbene una macchina
«incomparabilmente meglio ordinata e ha in sé movimenti più meravigliosi di
qualsiasi altra che possa essere inventata dagli uomini» (Descartes 1637).
Descartes ritiene di aver individuato in modo preciso la differenza tra uomo e
macchina: l'uomo, a differenza degli animali e delle macchine, può fare un uso
generale del linguaggio. Questo pone le macchine di fronte al compito di riuscire
a dimostrare che «non possono parlare come noi, mostrando cioè di pensare ciò
che dicono» (Descartes 1637). Fino a oggi non ci si è riusciti. Inoltre le
macchine non hanno consapevolezza delle loro azioni; agiscono solo «secondo la
disposizione dei loro organi» (Descartes 1637). Gli animali sono macchine
perché non hanno una ragione nel senso di uno strumento universale.
Distinguendo la res extensa dalla res
cogitans, nei suoi trattati sull'uomo Descartes può descrivere in modo
conseguente il corpo umano come macchina:
Suppongo che il corpo altro non sia
se non una statua o macchina di terra che Dio forma espressamente per renderla
più che possibile a noi somigliante di modo che, non solo le dà esteriormente
il colorito e la forma di tutte le nostre membra, ma colloca nel suo interno
tutte le parti richieste perché possa camminare, mangiare, respirare, imitare,
infine, tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare procedano dalla
materia e dipendano soltanto dalla disposizione degli organi. (Descartes 1662)
La macchina del corpo viene minuziosamente
ricostruita grazie alle tecniche dell'epoca; rilevante a tal fine è non
soltanto il meccanismo dell'orologio, ma soprattutto la tecnica idraulica delle
fontane a zampillo.
Con queste digressioni non ci troviamo
soltanto, per così dire, nel momento della nascita della conoscenza scientifica
moderna, ma diventiamo anche testimoni dell'origine di una problematica ancora
oggi irrisolta. Descartes, che stilizza il mondo sui modelli del meccanismo
dell'orologio e del sistema idraulico, non può risolvere il problema di come,
nel caso dell'uomo, un'anima condetermini questo meccanismo nei suoi movimenti.
La ghiandola pineale nel ventricolo cerebrale, che mantiene in movimento le terminazioni
nervose motorie, influisce certamente sul percorso degli spiriti animali di diverso
temperamento, ma non si comprende come l'anima ottenga immagini mediante questi
movimenti. Descartes, con i mezzi a disposizione, non può spiegare la
connessione tra dolore come irrequietezza del corpo e tristezza come movimento
dell'anima. Il corpo, in quanto macchina, è un cadavere (Descartes 1641).
Alla soluzione del problema corpo/anima
lavorano a tutt'oggi non soltanto le concezioni filosofiche, anche le moderne
teorie fisiologiche si imbattono continuamente in questo conflitto. Per quanto
progredite possano anche essere le spiegazioni neurobiologiche e
neurofisiologiche delle funzioni cerebrali, non si riesce a capire come questo cervello
generi significati. Con la meccanizzazione e la matematizzazione della res extensa, l'anima inizia a vagare e
si ritira all'interno del cervello. La secolarizzazione del fondamento
dell'anima, che oggi chiamiamo "Io", va mano nella mano con la favola
del mondo come macchina pensato con la precisione di un orologio meccanico.
Descartes intendeva senz'altro contrapporre
ego cogito alla natura spiegabile in termini meccanici; solo l'ego cogito
doveva avere un privilegio metafisico (Jonas 1973), ma non poteva evitare che
lo spirito, con la disciplina delle regole della conoscenza, venisse esso stesso
reso macchina. Uno spirito, che mediante l'analisi, l'ordine, la precisione e
la composizione giunge ai suoi raffinatissimi risultati, funziona come una macchina
(Baruzzi 1973). Non c'è alcuna ragione per dire che lo spirito inventivo more machinae
non venga intaccato da questa immagine del mondo. Radicalizzando si potrebbe
supporre che il pensiero, producendo la propria macchinalità, inizi a temere le
macchine a esso esterne.
Blaise Pascal (1623-62), che censurò l'Io
in quanto esecrabile e che voleva scrivere con- tro Descartes, in questa
prospettiva fece un passo ulteriore verso il dominio delle macchi- ne
simboliche. Inventò un calcolatore molto ammirato. Questo calcolatore non si
limitava alla funzione di alleggerire il lavoro di commerciante del padre, ma
portava anche a riflettere sul fatto che qui l'aritmetica era possibile senza
lo spirito umano. In quanto lavorato- re dello spirito, la macchina divenne in
un sol colpo più simile all'uomo di quanto potessero mai esserlo gli animali: «La
macchina aritmetica produce effetti [.. che si avvicina- no al pensiero più di
tutto quanto fanno gli animali; ma non sa far nulla che possa far dire che
abbia una volontà, come gli animali» (Pascal 1669-70).
Anche un altro celebre critico di
Descartes, Johann Amos Comenius (1592-1670), si rivolse contro il privilegio
dell'ego cogito; l'immagine della macchina per interpretare il sé e il mondo
non gli sembrò davvero scandalosa. Nella sua Grande didattica, l'orologio meccanico, svolge un ruolo centrale,
poiché può contemplare l'operato dell'ordine divino nella realtà umana: «Ecco
dunque che l'uomo in se stesso realmente non è nient'altro che armonia. Perciò
come se si guasta o non suona bene un orologio o un organo, fatto da mano maestra,
non si dichiara subito che non è più buono a nulla (perché si può accomodare e
rimettere in buono stato), così ai mali dell'uomo, si sia pur guastato quanto
vuoi con il cadere in peccato, si deve tener per fermo che in grazia della
virtù di Dio con certi dati mezzi si può rimediare» (Comenío 1993). L'uomo
«come anche il mondo (quello più grande) è una specie di enorme orologio»
(Comenio 1993).
Julien Offray de La Mettrie (1709-51) si limita a
trarre una conseguenza radicale quando, un centinaio di anni dopo Descartes,
concepisce e descrive l'uomo come l'homnae
naachine (1747-48). Egli viene stimolato dall'arte degli androidi di
Vaucanson e della famiglia Jaquet-Droz. Gli androidi sono automi con forma
umana e animale, che rispetto ai vecchi automi vanno al di là di un "fare
come se": scrivono "davvero", intingendo la penna
nell'inchiostro e facendola scorrere sul foglio; suonano "davvero",
premendo con le dita sui tasti. Ci si può far convincere dalla loro tecnica affascinante
sollevandone le vesti. Documentano il progresso delle scienze naturali e della
tecnica, ma pongono anche la questione dell'esistenza dell'anima. La Mettrie
non riesce a chiarire come possa sorgere lo spirito dall'organizzazione delle
parti della macchina, e sua intenzione è proprio quella di decifrare l'anima
nel passaggio attraverso gli organi. Il suo parco-macchine è imponente: la
macchina uomo funziona come un orologio o un automa dell'epoca. Essa si
distingue dall'animale mediante il linguaggio che, inteso come lanterna magica, lascia tracce nel
cervello e la generazione di queste tracce si spiega con la trasmissione di
oscillazioni che causano incisioni. Provocato da Descartes, che degrada gli
animali al rango di macchine senza sensazioni, La Mettrie contrappone al
dualismo ontologico un monismo materialistico: gli uomini sono «animali», sono
«macchine che strisciano in piedi». Il corpo umano è «una macchina che monta
da sé le sue molle» (La Mettrie 1748). L'anima è solo un concetto vuoto, «del
quale non si ha alcuna idea, e di cui un buon intelletto non deve servirsi se
non per nominare quella parte che in noi pensa» (La Mettrie 1748).
La concezione macchinale dell'uomo ebbe senz'altro un
posto nel quadro degli sviluppi legati al progresso illuminista. Helvétius
(1715-71), nella sua opera del 1773 edita postuma Sull'uomo, le sue facoltà e la sua educazione, riesce
ancora senza difficoltà a collegare un primo modello di macchina con programmi
di emancipazione: «Se si [...] vuole guidare il pupazzo umano, bisogna
conoscerne i fili che lo muovono» (Helvétius 1989). Egli parte da una
concezione antropologica di fondo che formula come segue: «l'uomo è una
macchina che viene messa in moto dalla sensibilità fisica e che deve fare tutto
ciò che elabora. E come la ruota del mulino che viene fatta girare dal
torrente, muove le pale e così l'acqua, destinata a fluire nelle vasche
apposite» (Helvétius 1989).
Nove anni prima de l'homme
machine il cui scandaloso significato si può dedurre dal fatto che venne
pubblicamente bruciato da un carnefice, in Germania venne pubblicato nell'Universrallexikon di Zedler un
articolo intitolato Macchina umana. L'articolo
inizia con le parole: «La macchina umana, machina
humana, o il corpo umano è l'altra parte importante dell'uomo, ed è una
macchina molto artificiale, per questo però anche facilmente soggetta al
mutamento e alla putrefazione, e un medico la deve considerare in due modi:
secondo la sua mistura o mescolanza da un lato e secondo la sua struttura o
complessione dall'altro» (Zedler 1961). A
differenza dello scritto di La Mettrie, questo articolo non va contro le
concezioni teologiche dominanti. Pienamente addentro alla tradizione
fisico-teologica, la spiegazione meccanica serve alla fama di Dio: «Per quanto
concerne la struttura del corpo umano, bisogna rilevare che esso è la macchina
più bella di tutte, la più perfetta e più artificiale, che sia stata generata
dal Creatore sommamente saggio in parti distinte che tra loro concordano al
meglio, ed è stata generata in modo tale che essa compia ed esegua i movimenti
ordinati e certi che le spettano per il suo proprio bene» (Zedler 1961). Il corpo è «abbellito» con la
vita e le sensazioni, ed è «allo stesso tempo dimora e officina dell'anima
dotata di ragione, immortale e immateriale» (Zedler 1961).
Al tempo di Descartes, Pascal e Comenio, la differenza
tra vita e morte non era ancora correlata alla differenza tra organico e
meccanico. Questo accade soltanto nel XVIII secolo. Quando, circa duecento
anni fa, al tempo della Rivoluzione francese, l'italiano Luigi Galvani (1737-98) fece contrarre le cosce recise
di una rana facendovi passare corrente grazie a un filo di rame e alla
"batteria" da lui sviluppata, ebbe luogo un esperimento che contribuì
alla crescente inquietudine dovuta alla questione di che cosa significhi la
vita. Le teorie meccaniche dell'epoca incontrano qui i loro limiti interni di
spiegazione; non sono in grado di dare una risposta adeguata alle pressanti
questioni concernenti la riproduzione e lo sviluppo. Ma questo produce solo
disagio; non si tratta più della sconvenienza del materialismo francese nel
senso di La Mettrie e Helvétius. In queste teorie non c'è posto per la morale.
Il fatto che l'anima venga sempre più espulsa dal parco macchine non è solo un
affronto al Dio creatore: è una minaccia all'autoconcezione dell'uomo come essere
ragionevole privilegiato. Tale posizione dovette perciò apparire amorale
soprattutto agli illuministi tedeschi, sicché la loro ricezione degli antefatti
francesi si espresse in particolare come opposizione, coinvolgendo la metafora
della macchina, finora innocente. Essa diviene segno della glorificazione
della morte e del vilipendio della vita, della forza creatrice e
dell'individualità.
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), che influenzò in maniera profonda il pensiero del
XVIII secolo, poteva ancora affermare:
Così il corpo organico d'ogni vivente è una
specie di macchina divina o di automa naturale, che sorpassa infinitamente
qualunque automa artificiale. Infatti una macchina costruita dall'arte umana
non è macchina in ciascuna delle sue parti [...]. Ma le macchine della natura,
cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle loro minime parti, fino
all'infinito. In questo è riposta la differenza tra natura e arte, cioè tra
l'arte divina e la nostra.
Il suo concetto di macchina non
era meccanicistico; una macchina vivente non era ancora un paradosso. Anni più
tardi Friedrích Heinrich Jacobi (1743-1819) affermerà:
Da ogni
parte la nobiltà è stata contrapposta al meccanico non solo dove si doveva
distinguere tra arte e mestiere, ma in tutte le cose, e precisamente in questo
modo: che si pensava da un lato l'attività dello spirito e dall'altro la mera
attività del corpo; da un lato la nobiltà del senso e le facoltà, dall'altro
l'utilità e il bisogno esteriore; da un lato libertà e autodeterminazione, dall'altro
schiavitù e impulso alieno.
(Citato in Schmitz-Emanz 1988)
Qui si sono già stabilizzati
dualismi dai quali siamo influenzati ancora oggi: il meccanico viene associato
alla morte, alla schiavitù, all'eterodeterminazione, l'organico a ciò che è
vivo, creativo e individuale. L'autodescrizíone dell'uomo è mutata nel corso
dell'Illuminismo: l'uomo concepisce se stesso ormai come essere autodeterminato
e creativo, che in riferimento al progresso della storia umana si concepisce
come contrario di ciò che è fissato, di ciò che è morto, della macchina. Ora
incontriamo l'immagine dell'uomo non come autodescrízione, ma come
autoproblematizzazione.
Verso la fine del XVIII secolo,
che viene chiamato anche il secolo pedagogico, critico,
il secolo dell'uomo macchina (Jean
Paul), la considerazione positiva della macchina come modello per la concezione
di sé e del mondo propria dell'uomo non è più unanime. Con la crescente
autocoscienza dei soggetti borghesi si rafforza il sospetto contro i modelli macchinici
dell'agire pedagogico e politico. Si pensi a Hegel (1770-1831) quando confronta
lo Stato con una macchina dal «programma sistematico più vecchio», e a Kant (1724-1804)
quando confronta lo Stato dispotico con un mulino a mano. Kant chiude la sua
risposta alla domanda «Che cos'è l'Illuminismo?» con la speranza:
Se dunque
la natura ha sviluppato sotto questo duro involucro il germe da cui essa prende
la più tenera cura, cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero, questa
tendenza e vocazione gradualmente reagisce sul modo di sentire del popolo (per
cui questo, a poco a poco, diventa sempre più capace della libertà di agire), e
alla fin fine addirittura sui principi del governo il quale trova che è nel
proprio vantaggio trattare l'uomo, che ormai è più che una macchina, in modo
conforme alla di lui dignità.
Allo stesso tempo il singolo, nel
contesto della comunanza o addirittura della cittadinanza mondiale, in
riferimento all'utilizzo privato della ragione deve inserirsi come una parte in
una macchina. Qui lo Stato è paragonato a una macchina e questa immagine, nota
sin dal Leviatano di Hobbes, riecheggia ancora nelle lettere di Schiller sull'educazione
estetica, dove la riforma dello Stato viene paragonata alla riparazione di un orologio
mentre sta funzionando. L'immagine macchinale perde via via la sua forza
simbolica in riferimento alla spiegazione dei contesti cosmologici e biologici;
essa è efficace ormai come controimmagine rispetto alla libertà, alla
spontaneità e alla creatività, che rientrano in modo determinante
nell'autodescrizione dell'uomo del XVIII e XIX secolo. Di fronte agli «spiriti
liberi» ci sono le «macchine asservite» (Jean Paul). Proprio mentre, a partire
dal neoumanesimo del XIX secolo, si assume la posizione della soggettività
autonoma per criticare il carattere macchinale dei rapporti umani, le macchine
restano modelli in uso, sia nella psicoanalisi come «apparato psichico» nel senso
di Freud, sia nella sociologia come «apparato burocratico» nel senso di Weber. Non
si ricorre soltanto ad apparati ottici, ma anche alla macchina a vapore, alla
macchina da lavoro del XIX secolo. Essa fornisce l'immagine modello per l'Es
come «crogiuolo di eccitamenti ribollenti» (Freud 1986) e il modello per capire
il significato delle pulsioni, che, in quanto piano più basso dello psichico,
costituiscono il «vapore» «che è a un tempo quella spinta che tutto sospinge
fin nelle più luminose altezze dell'attività spirituale, e che genera altresì
l'energia per ogni atto della più pura speculazione e della più delicata e illuminata
bontà» (Scheler 1976). La metafora dell'ingranaggio, che nel XVIII secolo in
connessione alla metafora dell'orologio era evidente e nella quale si è
confidato fino a oggi, impallidisce. Se da un lato la macchina è un segno
dell'alienazione e della tirannia della ragione strumentale, dall'altro essa
rimanda a contesti funzionali portanti della nostra esistenza anonima e
contingente. In questa seconda prospettiva i modelli macchinali, di fronte ai dubbi
sugli approcci della soggettività sovrana, conseguono nuovi significati, in
quanto ci consentono di comprendere perché la libera autodeterminazione sia un
compito tanto difficile per un essere esistente come corpo. «Le macchine», dice
Lacan, «sono un'altra cosa. Che va ben più lontano verso ciò che noi siamo
realmente di quanto non suppongano quelli stessi che le costruiscono» (Lacan
1978). Valéry parla di un «quantum di macchina» nell'uomo, per ricordare che
noi in quanto uomini non siamo soltanto unici e inconfondibili (Valéry 1973,). Non
è detto che questo decentramento venga concepito necessariamente come meccanicizzazione;
ma questo è ciò che accade in diverse concezioni. In questo senso gli approcci
della teoria dei sistemi sono improntati a rappresentazioni macchiníche (cfr.
tra gli altri Maturana). Diventa possibile parlare di un «soggetto qualsiasi»,
tanto «qualsiasi [...] che uno dei mezzi più istruttivi per analizzarne le azioni
consiste nel costruire, con equazioni o con macchine, modelli di
"intelligenza artificiale", e nel fornirne una teoria cibernetica per
cogliere le condizioni necessarie e sufficienti, non della sua struttura ín
astratto [...] ma della sua realizzazione effettiva e del suo funzionamento»
(Piaget 1968). La concezione strutturalistica della soggettività trova un
modello nel meccanismo della macchina: le macchine fungono da modello per
decifrare i rapporti del Sé e del mondo, e sostengono le critiche contemporanee
alla soggettività, come si può notare tra l'altro nelle concezioni di Gotthard
Giinther e Vilém Flusser. Gotthard Giinther, che si occupa di una teoria
cibernetica della soggettività, afferma: «Nella cibernetica incontriamo un nuovo
sentimento del mondo, nel quale l'anima cerca la sua patria non in un aldilà,
ma in questo mondo, che mediante il processo di riflessione deve essere
spogliato della sua estraneità e ripensato come immagine dell'uomo. Nella
macchina dotata di "pensiero" e "coscienza", l'uomo
rappresenta un'analogia del proprio Io» (Giinther 1963). In questo modo si
sottolinea il fatto che le evidenze tradizionali sono superate: il dualismo
soggetto-oggetto va in pensione. L'informazione, che non è né l'uno né l'altro,
ma rappresenta un terzo, insegna all'uomo a disconoscere se stesso. Flusser
constata che l'uomo è soltanto portatore di messaggi. Quindi bisogna
abbandonare tutti i processi che da questa prospettiva tendono alla
concretizzazione, bisogna dissolvere i concetti tradizionali come soggettività,
spirito, anima e soprattutto bisogna mettere alla prova la nostra ideologia
dell'identità. L'uomo deve piuttosto essere concepito come nodo di una rete,
sui cui fili corrono le informazioni. Se li si scioglie, non resta nulla: «In
altre parole: dobbiamo sviluppare un'antropologia che consideri l'uomo come un nodo
(curvatura) di alcuni campi relazionali che si intersecano» (Flusser 1989). Nell'antropologia
di Flusser, il connessionismo ha lasciato tracce evidenti. Dagli anni cin- quanta
si sono sviluppate idee sulla nostra attività cerebrale nel senso delle reti
neurali, che all'inizio sono esistite come esercizio mentale; questo esercizio,
però, in tempi recenti è stato reso concreto empiricamente mediante l'esplorazione
delle funzioni cerebrali compiuta dalla medicina nucleare: le reti neurali non
devono essere intese come semplici reazioni ai segnali dell'ambiente, in quanto
si auto-organizzano reagendo ai loro propri impulsi. Con l'aiuto del cosiddetto
connessionismo si possono superare le incomprensioni della semplice analogia
tra pensiero ed elaborazione di informazioni, poiché ora si può ricostruire una
conoscenza legata al contesto come architettura funzionale provvisoria di reti
neurali. Contemporaneamente il ruolo del cervello come organo centrale è
diventato evidente. Cyberspace, realtà virtuali e telepresenza rivestono una
concezione umana di sé e del mondo che si concentra sulle strutture cognitive e
dematerializza sempre più il lega- me corporale a un mondo di sensi (Berr
1990). Nella nostra epoca il computer costituisce l'autodescrizione dell'uomo
inteso come macchina spirituale più amata. Esso simula le nostre possibilità
spirituali e isola le no- stre imperfezioni corporali; ci illude sulla nostra
finitezza e ci spinge a fantasie riferite a una «società di figli dello spirito
assolutamente liberi» (Moravec). Di fronte ai progressi dell'informatica
(neuronale) e della robotica, tuttavia, si impongono inquietanti domande:
quando si può parlare veramente di vita e quando di morte? Bisogna attribuire
diritto di cittadinanza ai sistemi elettronici? Hanno un'anima? Quando in
centinaia di ponderosi trattati gli uomini si chiedono se i computer possono
pensare, allora è chiaro che la questione di che cosa significhi pensare è
diventata profonda. Se si stende continuamente la mano verso l'ancora di
salvezza costituita dal fatto che i sistemi computerizzati possono certamente
simulare ogni atto di coscienza, ma non l'autocoscienza in quanto tale, allora
anche qui bisogna rinviare alla mancanza di fondamenti della sicurezza. Che la
nostra coscienza sia innanzitutto autocoscienza non è affatto scontato, ma è il
risultato della storia delle autodescrizioni dell'uomo. In questa prospettiva
avere a che fare con le macchine rende chiaro anche che gli uomini vi si
rispecchiano, che essi raddoppiando se stessi vogliono risolvere í loro enigmi.
Gli androidi del XVIII secolo misero le ali ai piedi del materialismo francese
del primo Illuminismo e dissolsero profonde insicurezze metafisiche in
riferimento all'esistenza dell'anima. Macchina sistemi elettronici di
elaborazione dei dati danno adito oggi a visioni di immortalità e ci confrontano
con la questione di che cosa significhi pensare, che cosa significhi
"Io". I costrutti tecnici costituiscono a questo riguardo una realtà
di tipo particolare. Secondo Tibon-Cornillot essi si insediano in uno spazio
intermedio nel quale si incrociano la simulazione del vitale e la
vitalizzazione delle macchine. La medicina dei trapianti, in questo senso,
partecipa all'automatizzazione del vitale e le macchine cibemetiche lavorano
al- la vitalizzazione dell'automatico. Questi «doppi» (Doppelgdnger) non sono né mere ombre né immagini riflesse
(Tibon-Cornillot 1982): si rendono autonomi dall'originale. Le sfide delle
macchine cosiddette «transclassiche» hanno quindi almeno due tipi di conseguenze:
da un lato l'uomo raddoppia l'essere enigmatico delle cose e del suo io in un
processo automatico a partire dal quale egli si comprende. Dall'altro lato
l'uomo viene incoraggiato a determinarsi nella differenza rispetto alle sue
macchine, cosa che può contribuire ad ampliare la sua concezione di sé, che
nella modernità era diventata relativamente monotona. Mentre l'uomo non si
situa spensieratamente nel parco macchine da lui prodotto, ma vuole assicurarsi
la sopravvivenza oltre le differenze, diventano rilevanti le sue dimensioni non
simulabili. La «macchina spirituale» viene a confrontarsi con la questione se
si possa pensare senza corpo (Lyotard). Le rappresentazioni di una fine dovuta
a un collasso gravitazionale o al surriscaldamento della Terra, oltre al
desiderio ancestrale di immortalità, motivano a riflettere sul- la possibilità
di uno spirito indipendente dal corpo. Questo trova la sua espressione contemporanea
nelle visioni di una società postbiologica che, come scrive Moravec, «sarebbe
dominata da macchine pensanti che perfezionano se stesse» (Moravec 1990, p.
14). Moravec, in queste visioni, si serve dell'analogia tra uomo pensante e
sistema di elaborazione delle informazioni: le informazioni memorizzate possono
circolare (dischetti) indipendentemente dal luogo della loro produzione
(computer). «Bisogna solo immaginarsi che lo spirito umano venga liberato in
modo analogo dal suo cervello (per quanto questo sia tecnicamente molto
complicato)» (Moravec 1990, pp. 13 s.). Sarebbe certamente affrettato
sbarazzarsi di queste visioni come science fiction da mero intrattenimento.
Hans Moravec non è un inesperto sospetto. Marvin Minsky, un ricercatore tanto
riconosciuto quanto discusso nel campo dell'intelligenza artificiale, considera
il corpo come un modo meramente convenzionale di sviluppare il cervello. Minsky
appartiene al novero dei teorici per i quali la questione della cosiddetta
intelli- genza artificiale rappresenta soltanto un problema che mette alla
prova le possibilità di ricerca attuali (Minsky 1986, trad. it. p. 137). Nelle
sue analisi sui confini dell'intelligenza artificiale, Dreyfus già all'inizio
degli anni settanta aveva invitato a considerare il fatto che l'impossibilità
di simulare il pensiero, cioè come l'uomo pensa, si fonda sulla nostra
costituzione corporea. Egli riabilita il sapere di sfondo indeterminato e il
contesto situativo, che rendono possibile il nostro sapere senza essere
espliciti. Proprio nella discussione sulla ricerca nel campo dell'intelligenza
artificiale si nota che si è perduto il sogno razionalistico basato sull'idea
che il sapere dovrebbe essere illuminato in regole formalizzabili e infine
regolato artificialmente. Quanto più vengono operate formalizzazioni, tanto più
evidente diventa la rilevanza di ciò che non si può formalizzare. Il campo
della razionalità, in questa prospettiva, ha bisogno di un ampliamento per
concepire non che cosa sappiamo, ma come sappiamo. Il compimento del nostro
sapere e quindi anche le nostre possibilità di imparare, ma anche di
disimparare, sono relativamente determinati da capacità corporali, che in
quanto know-how non arti- colato e preconcettuale consentono la nostra
conoscenza esplicita (Dreyfus). Una coscienza incarnata è una coscienza
impegnata: proprio questo impegno non può essere concepito come
rappresentazione simbolica di un mondo. La pena per l'ignoranza della ricerca
sulla intelligenza artificiale di fronte alla rilevanza del sapere implicito,
che accumuliamo nelle nostre esperienze corporali, consiste nel fatto che essa
sempre viene funestata dal fantasma della non generalizzabilità (Dreyfus 1972).
Da questo punto di vista, certe
mancanze, una volta perseguitate in quanto intorbidiscono la conoscenza chiara
e sicura, vengono inaspettatamente rivalutate. Ciò che non si può simulare
tenta di ribellarsi; ciò che non è identico e in quanto tale non identificabile
richiede attenzione; le parti oscure del pensiero non vengono più ricusate, ma accettate
nel loro significato costitutivo. In questa prospettiva le macchine classiche e
transclassiche arricchiscono la nostra concezione del mondo e del Sé, non
inserendoci in un ordine fisso delle cose, ma tenendo davanti a noi lo specchio
dei nostri disconoscimenti e ci provocano a mettere sempre e continuamente in
dubbio le nostre autodescrizioni come macchine corporali e spirituali.